venerdì 13 agosto 2010

È festa! con la PFM

La Premiata Forneria Marconi canta De André (e non solo) in concerto a Terracina, 8 agosto 2010

Due ore e mezzo di concerto non te le aspetti più da nessuno, in tempi in cui bisogna stare attenti a non sforare il limite di decibel consentito e, soprattutto, in tempi in cui “a mezzanotte tutti a casa”. Ma la PFM, un po’ per “una pacifica disobbedienza civile”, un po’ perché – diciamolo – se lo può permettere, non solo riesce a cavarsela egregiamente sul palco, ma riesce fino all’ultimo a coinvolgere i propri fan, facendo aumentare le emozioni in gioco di pari passo con il ritmo delle proprie canzoni. Al suo ingresso sul palco, subito prende la parola Franz Di Cioccio, uno dei membri storici della band, al quale spettano i saluti di rito e la presentazione del concerto: un iniziale tributo all’amico Fabrizio De André, insieme al quale, negli anni ‘70, la PFM ha dato vita a uno dei sodalizi meglio riusciti della storia della musica italiana, e una seconda parte dedicata invece ai pezzi storici e cavalli di battaglia del gruppo. Dopo queste poche parole, si lascia subito lo spazio alla musica: escono dal silenzio tutti gli strumenti, uno alla volta, come se si stessero risvegliando da un lungo sonno. Tastiere, batteria, basso, violino, chitarra iniziano subito in grande con “Bocca di rosa”, “La guerra di Piero”, “Un giudice”, “Andrea”, canzoni che riescono a trascinare il pubblico sull’ondata di una gioiosa malinconia. Seguono altri brani, in cui invece viene fuori l’esperienza privata del poeta De André, come “Giugno ‘73”, “Amico fragile”, “La canzone di Marinella”. A questo punto del concerto, la PFM ci presenta il suo nuovo lavoro “A.D. 2010 - La Buona Novella - Opera Apocrifa da La Buona Novella di Fabrizio de Andrè” attraverso tre brani: “L'infanzia di Maria”, “Maria nella bottega d'un falegname” e “Il testamento di Tito” (quest’ultima, a mio parere, una delle canzoni più significative del repertorio di De André). Prima di concludere la prima parte del concerto c’è anche spazio per una canzone in dialetto sardo, che, come ricorda Franco Mussida, era, insieme a quello genovese, il dialetto più amato da De André. È lo stesso Mussida a cantare “Zirighiltaggia (lucertolaio)”, canzone che ricorda le più classiche tarante e pizziche e fa subito venir voglia di ballare. E continuando sullo stesso filone musicale, accompagnandosi con i tamburelli, Di Cioccio e Mussida cantano insieme “Volta la carta”.
Rimangono inevitabilmente fuori scaletta molti dei pezzi più famosi del cantautore genovese, ma è ora di lasciare il posto a un tripudio di suoni e di strumenti dei più disparati, in tipico stile PFM, in tipico stile rock progressive. Si inizia con “La luna nuova”. Franz Di Cioccio prende il microfono più spesso, adesso. Spiega cosa c’è dietro i testi che hanno scritto e soprattutto spiega i tempi in cui sono stati scritti. “Era un po’ tutto come è adesso”, dice. “Nel 1975 la gente non si accorgeva che il mondo stava cambiando, proprio come adesso. (…) Il mondo è diventato un grande cesso che gira intorno al proprio asse”. È ora di “Out of the Roundabout”, tratto dall’album “Chocolate Kings” (1975), che dà l’opportunità al chitarrista Franco Mussida di lanciarsi in un assolo da far venire i brividi. Le dita si muovono veloci tra le corde e sembra che, almeno per loro, il tempo non sia passato. A seguire, altre belle note con “La carrozza di Hans”.
È quasi mezzanotte e, rassegnati all’imminente fine del concerto, aspettiamo il brano di chiusura, che per i fan del gruppo non può che essere “Impressioni di settembre”. E invece, proprio quando nessuno se lo aspettava più, ecco che ritorna tra noi il Faber, sulle note del violino di Lucio Fabbri che attacca con l’inconfondibile intro de “Il pescatore”. Tra l’entusiasmo generale, Di Cioccio invita il pubblico a fare, d’ora in avanti, quello che desidera e la risposta non si fa attendere: in un attimo i più giovani (che inizialmente, mimetizzandosi tra gli altri, non sembravano neanche così tanti) corrono sotto il palco. Gli uomini della sicurezza tentano di fermarli, ma niente si può fare contro un folla così entusiasta. L’ultima mezz’ora di concerto è un continuo battere di mani, un perpetuo ondeggiare di braccia e un’incessante raffica di flash che accompagnano anche l’attesissima “Impressioni di settembre” (sebbene Mussida si fosse finto restio a suonarla in quanto “fuori stagione”). Evidentemente colpito dall’ondata di energia di un pubblico così elettrizzato, Franz Di Cioccio sparisce per qualche attimo dietro le quinte e ne riemerge tenendo ben stretta tra le mani la sua videocamera che rivolge immediatamente sotto di sé, a riprendere quello spettacolo: un pubblico urlante, sulle note di “È festa (celebration)”. A mezzanotte e mezzo, però, ci avviamo verso la conclusione: Franz Di Cioccio ci presenta la band non in termini di persone, ma in termini di dita: 60 dita, per la precisione. Le prime dieci dita pigiano tasti bianchi e neri e sono quelle di Gianluca Tagliavini; altre dieci dita, quelle di Franco Mussida, si fanno magistralmente strada tra le sei corde di una chitarra; altre dieci dita, quelle di Pietro Monterisi, stringono due bacchette di legno, che a loro volta battono sopra tamburi e piatti; altre dieci dita, appartenenti a Patrick Djivas, fanno cantare le quattro corde di un basso; le altre dieci, facenti capo a Lucio Fabbri, riproducono melodie sinuose al violino; e le ultime dieci dita, quelle di Franz Di Cioccio, fanno quello che rimane da fare: si dividono tra batteria (il loro primo amore), tamburelli e strumenti a percussione di ogni tipo, e, all’occorrenza, fanno volteggiare in aria l’asta del microfono per poi riprenderla al volo.

Valeria R.

immagine di passo_variabile



Una luce bianca intermittente illumina il palco con brevi stacchi d’oscurità. Si spegne. Sei ombre salgono sul palco. E in un esplosione di luce viola, Franz Di Cioccio ci inizia a raccontare cosa accadrà nelle quasi tre ore successive, ma le parole non rendono, perciò la chitarra di Franco Mussida inizia a dargli manforte, seguita in rapida successione dalle tastiere di Gianluca Tagliavini, dal superbo violino di Lucio Fabbri, cui si aggiunge il ritmico incalzante sottofondo della batteria di Pietro Monterisi e del basso dell’eccelso Patrick Djivas. Le prime note di “Bocca di rosa” mi folgorano, mi riportano ai miei dieci anni, un’ intera estate passata ad ascoltare quella canzone, con quell’arrangiamento, la prima canzone di Faber che abbia mai ascoltato, la porta attraverso cui è entrato nella mia vita, modificandola, facendo di me quello che sono oggi. E quella porta ora è spalancata. Spalancata da questi sei signori, tre dei quali più vecchi di mio padre, ma con un energia ed un vigore che i ventenni si sognano. Cazzo, questo è Rock! Rock puro, profondo, aggressivo, che ti smuove l’animo dalle fondamenta. A “Bocca di rosa” segue “La guerra di Piero”, e così via in un crescendo che ha dell’incredibile: ogni pezzo ci si aspetta che sia un po’ peggiore del precedente, non accade mai, accade anzi il contrario, ogni canzone è una perla, familiare ma splendida nella sua originalità. “Andrea”, “La canzone di Marinella”, “Zirighiltgghia”, “L’infanzia di Maria” (pezzo inedito per il gruppo, che fa parte di un recente ed interessante lavoro di riedizione dell’album “La Buona Novella”), “Il testamento di Tito” sono un alternarsi di momenti di concitato entusiasmo e pacato ma intenso trasporto. Sulla giga di “Volta la carta” la voglia di alzarsi e ballare si trattiene a stento (tanto che lo strumentale verrà replicato verso la fine del concerto, essendo il pubblico più libero di partecipare attivamente). Ma il vero stupore è arrivato con quelli che probabilmente per il più della platea erano i due pezzi meno conosciuti, ma che per me sono tra le canzoni più care del vecchio Faber: “Maria nella bottega del falegname” e, soprattutto, “Giugno ‘73”, la storia di questo amore passeggero - la terza donna della vita di Fabrizio, quella che nessuno ricorda mai - a me ha sempre colpito molto; in questa canzone io sento il rimpianto di un amore perduto, e la rassegnazione di fronte alla vita che scorre portando via con sé le persone che abbiamo amato e che, se anche non dimenticheremo mai, e non verremo mai da loro dimenticati, non rivedremo mai più, perché spesso è la vita che decide al posto nostro. A dir poco commovente. Con una bella versione dell’intimistica “Amico fragile” si chiude la prima parte del concerto, ed allora ecco la sorpresa! Il repertorio progressive targato P.F.M. si rivela egregiamente all’altezza di quello cantautoriale targato De Andrè. Pezzi come “È festa (Celebration)”, e soprattutto “Maestro della voce” sono state per me, che conoscevo La Premiata Forneria Marconi principalmente come gruppo strumentale, delle vere e proprie rivelazioni. Di certo non mi hanno sorpreso i virtuosismi musicali di gente del calibro di Lucio “Violino” Fabbri e di Patrick Djivas, che riesce a rendere un giro di basso più coinvolgente di un assolo di chitarra elettrica, ma vi posso assicurare che anche se aveste passato la vostra vita ascoltando i migliori musicisti del mondo non avreste potuto esimervi dal restare a bocca aperta (come è rimasto il sottoscritto) di fronte a ciò che Franco Mussida è riuscito a creare nell’assolo di “Out of the roundabout”.
Comunque dopo due ore buone di concerto, la P.F.M. decide di chiudere suonando “Il pescatore”. È il delirio: la gente coinvolta ed esaltata si lancia sotto il palco ma viene bloccata dagli addetti alla sicurezza, al che Di Cioccio urla di lasciarli passare; non fa in tempo a dirlo che dalla parte opposta della platea un altro gruppo si riversa come un’onda sotto il palco. Un concerto che era praticamente finito si rianima: Mussida rischia il linciaggio quando prova ad accennare la sua intenzione di non suonare “Impressioni di settembre”, pezzo che viene puntualmente e magistralmente eseguito dallo stesso Mussida con Di Cioccio che riprende il suo posto originale alla batteria, tra strumentali ed assoli il gruppo va avanti per un'altra quarantina di minuti. Il concerto finisce in un’ovazione generale alla presentazione dei singoli membri del gruppo e con la convinzione che se nessuno avesse staccato la spina a Di Cioccio, lui avrebbe potuto continuare per tutta la notte.
Insomma con una vecchia guardia così chi ha bisogno di giovani musicisti?!

Stefano P.



Libreria musicale:

Bocca di rosa
La guerra di Piero
Giugno '73
Il testamento di Tito
Il pescatore

E' festa (celebration)
Out of the roundabout
Maestro della voce
Impressioni di settembre

sabato 17 luglio 2010

Toy Story 3: verso l'infinito e oltre!

Quando, un paio di anni fa, venni a sapere che la Pixar aveva in cantiere un terzo episodio della serie Toy Story, devo ammettere che rimasi alquanto perplesso. I primi due film erano stati dei capisaldi della mia infanzia, erano entrambi ben fatti, e a modo loro avevano delineato una storia che sembrava conclusa. Che senso poteva avere un nuovo sequel, a undici anni di distanza dall’ultimo episodio? Visto che la serie di Toy Story è stata l’unica (finora) cui la Pixar abbia mai dedicato più di un film, mi venne il dubbio che il tutto potesse essere etichettato come una semplice operazione commerciale, volta a vendere merchandising e altre amenità simili. Beh, mi sbagliavo: Toy Story 3 è uno dei migliori seguiti che siano mai stati realizzati nella storia del cinema. E, soprattutto, è uno dei più necessari e sensati.

La trama del film comincia esattamente lì dove si interrompeva quella del secondo episodio. O meglio, si riaggancia ad essa facendoci capire, nel giro di poche scene, che anche nel mondo della finzione sono passati dieci anni. Andy, bambino nelle due precedenti pellicole, è oggi un diciassettenne in procinto di partire per il college, e viene sollecitato dalla madre a mettere in soffitta un po’ di roba vecchia. A causa di un’incomprensione, però, i suoi vecchi giocattoli finiscono dapprima in un secchio della spazzatura e poi, dopo una rocambolesca fuga, all’interno di un asilo, il Sunnyside. Qui entrano in contatto con una nuova, sterminata, comunità di giocattoli, guidata da orso di peluche rosa chiamato Lotso. Ben presto, i giocattoli di Andy si accorgeranno che la realtà dell’asilo è molto più oscura di quanto non appaia a prima vista.

Bastano pochi fotogrammi per riportare lo spettatore ai tempi del primo film. Del vecchio “cast” ormai sono sopravvissuti solo i personaggi principali: Woody e Buzz, ovviamente, e poi la cow-girl Jesse, il cavallo Bullseye, Mr. & Mrs. Potato, il dinosauro Rex, il cane a molla Slinky e il salvadanaio Hamm. Anche a distanza di anni, la caratterizzazione degli eroi di plastica funziona ancora a meraviglia: ognuno ha la sua personalità, le sue caratteristiche e uno stile ben definito. A questi si aggiunge una valanga di nuovi personaggi: alcuni di questi ben descritti (il già citato Lotso, Ken, i giocattoli della bambina Bonny), altri abbozzati soltanto di sfuggita (come la gang del cattivo). Anche Andy appare credibile nel suo passaggio da bambino ad adolescente, e a sottolineare il passaggio del tempo arrivano anche alcuni simpatici richiami alla realtà contemporanea (i giocattoli che cercano la propria quotazione su Ebay, il triceratopo che chatta, un simil-Google Maps…). L’atmosfera, insomma, è ben delineata e ci trasporta dritti nel cuore della storia.
Per di più non si notano forzature o elementi fuori posto, ogni cosa è in linea con il resto, tutto appare credibile. Così il terzo capitolo si rivela essere quasi necessario e addirittura fondamentale nell’economia della saga: fornisce una vera (e definitiva) conclusione a una vicenda che sembrava – ma solo apparentemente – già terminata. In tal senso sembra quasi che tutto fosse già delineato nella mente dei suoi creatori, anche se ovviamente non è così: ad averne, però, di sequel talmente ben fatti e congegnati!

La trama, pur ricca di colpi di scena e inaspettati cambi di fronte, è a dire il vero poco più che un pretesto. Alla Pixar non interessa questo aspetto delle proprie pellicole – e lo ha già dimostrato con le sue ultime opere. Quel che più colpisce in Toy Story 3 è la capacità degli autori di emozionare lo spettatore. Giocando in parte su quello che chiamerei “effetto saga” (in fondo è il capitolo conclusivo di una trilogia, e in questi casi i fan affezionati entrano in sala già propensi alla lacrimuccia), ma in parte anche sul proprio straordinario talento, gli artisti della Pixar hanno confezionato un prodotto meraviglioso e commovente. Mai come in questo film i giocattoli appaiono umani, con sentimenti e pensieri reali e credibili; per di più si trovano di fronte a scelte morali non indifferenti, che rendono i protagonisti veramente a tre dimensioni (anche senza l’ausilio degli appositi occhialini). La girandola di sentimenti che sin dalle prime sequenze attanaglia gli spettatori giunge al culmine in alcune scene madri che rimarranno giustamente nella memoria di tutti: le scene nella discarica (soprattutto quella – da Oscar – all’interno dell’inceneritore) e gli ultimi minuti di film, dove è quasi impossibile trattenere le lacrime (avete notato che, nell’ultimissima scena, le nuvole in cielo sono uguali a quelle della camera di Andy?). Sotto il profilo emotivo, questo film – al pari di tutte le altre opere Pixar – ha molto da insegnare al resto della produzione cinematografica mondiale, e meriterebbe riconoscimenti maggiori del premio simpatia che racimola per il fatto di essere un “semplice” cartone animato.
Il film dà anche lo spunto per alcune riflessioni non scontate. C’è una bella vena di malinconia che pervade tutto il film, e che si sposa perfettamente con il tema principale del film: il passare del tempo. Non sono soltanto gli umani a cambiare (fisicamente e psicologicamente), ma anche gli stessi giocattoli: per chi – come quelli della mia generazione – è cresciuto ed è stato bambino con questi personaggi, fa un certo effetto constatare che molti dei giocattoli storici di Andy (la lavagnetta magica, l’auto radiocomandata, Bo la bambola di porcellana) non ci sono più, e che le mitiche assemblee indette da Woody si sono ormai ridotte ai minimi termini. Ed anche gli stessi protagonisti vivono in una sorta di clima da ultimi sopravvissuti: la maggior parte appare più disillusa rispetto al passato, e di gran lunga meno ottimista. Sono elementi che possono sembrare di secondo piano, ma che in realtà contribuiscono enormemente all’atmosfera del film.

La capacità di colpire al cuore le persone è sicuramente fuori dal comune, però, da sola, non basterebbe a fare di Toy Story 3 un capolavoro. Stiamo pur sempre parlando di un film, e in quanto tale deve anche essere gradevole da guardare: ma, anche qui, la Pixar fa nuovamente centro. Se, come è successo a me, vi è capitato di rivedere recentemente i primi due episodi della trilogia, guardando questa pellicola vi renderete subito conto dei passi da gigante che sono stati fatti, nell’ultima decade, sotto il profilo tecnico. Il primo Toy Story (datato 1995) fu il primo film nella storia ad essere interamente realizzato in digitale, e fece gridare al miracolo; il secondo (1999) surclassò il capostipite in ambito grafico, con una ricchezza di dettagli che mi sbalordì. Beh, il capitolo finale (con un budget record di 200 milioni di dollari) è una vera apoteosi di effetti digitali assolutamente perfetti. Dai dettagli (la sabbia sul corpo di Mr. Potato) all’interazione fra i vari personaggi, non si intravede neanche l’ombra di una sbavatura. A ciò va aggiunto il design dei nuovi protagonisti, assolutamente ben delineato: penso alla banda dei cattivi, ruvidi e malvagi quanto basta, o allo shakespeariano riccio di peluche.
Anche la regia ci mette del suo. Ero perplesso sulla scelta di Lee Unkrich, regista esordiente ma con esperienza di co-regista in altre tre pellicole Pixar: e invece il buon Lee non sbaglia un colpo, destreggiandosi fra acrobazie, carrellate e inseguimenti. Spettacolare la sequenza che apre il film – una surreale fantasia di Andy che vede per protagonisti i suoi giocattoli – che ha davvero poco da invidiare ai più blasonati film d’avventura. La sceneggiatura (di Michael Arndt, premio Oscar per Little Miss Sunshine) non dà un attimo di tregua: gli eventi si susseguono ad un ritmo indiavolato – specialmente nella seconda parte, davvero ricca d’azione – travolgendo lo spettatore in un vortice di tensione. Le musiche (opera di Randy Newman, con le canzoni cantate in italiano come sempre da Riccardo Cocciante) sono poi una gioia per le orecchie: qui c’è un abisso fra questa pellicola e le due precedenti, in verità un po’ piatte in quanto a colonna sonora; stavolta invece il registro musicale si adatta perfettamente alle situazioni, andando dal malinconico all’incalzante, e donando una vera marcia in più agli episodi.
Due parole pure sul doppiaggio italiano. I personaggi principali sono doppiati dagli attori storici della serie. Su tutti, ovviamente, dominano Fabrizio Frizzi (Woody) e Massimo Dapporto (Buzz): sarà che li ho sempre sentiti con queste voci, ma per quanto mi riguarda questi due personaggi non hanno ragione di esistere senza i loro due ottimi doppiatori. Diversi poi, secondo la consuetudine dei cartoon localizzati in Italia, i vip che hanno prestato la propria voce: si riconoscono Fabio De Luigi (Ken), Claudia Gerini (Barbie), Gerry Scotti (nel ruolo del telefono giocattolo), mentre meno intuitivo è Giorgio Faletti nel ruolo del clown. Nel complesso il doppiaggio è di ottimo livello, trascinato anche dagli straordinari caratteristi che danno voce ai giocattoli storici di Andy.

Come da tradizione Pixar, il film è preceduto da un cortometraggio, intitolato Quando il giorno incontra la notte. Anche questo è un piccolo gioiello: un mix di animazione tradizionale e tecnica digitale, in cui è messo in scena un incontro / scontro tra due buffi personaggi rappresentanti il giorno e la notte. Molto difficile da descrivere, va visto per capirlo: in ogni caso, anche volendo trovare un difetto qui, l’impresa è ardua.
O forse no. Ecco, a ben vedere qualcosa di storto c’è in questo film: si tratta della tecnologia 3D ormai dilagante (il film è uscito anche in un normale 2D, ma ormai trovare un cinema che non si sia attrezzato con le tre dimensioni è quasi impossibile). Davvero non riesco a capire che apporto possa dare questa tecnologia a un film del genere: a parte un paio di scene (in cui, come al solito, c’è un movimento dal fondo verso lo schermo, o viceversa), la restante parte della pellicola è pressoché priva di elementi tridimensionali degni di nota. In compenso era tridimensionale il prezzo del biglietto… Capisco che ormai tutti i cartoni siano “obbligati” ad uscire in 3D, ma la Pixar aveva davvero bisogno di questo bieco stratagemma per acchiappare il pubblico?

Concludendo, Toy Story 3 è un film bellissimo ed emozionante. Dando per scontato che abbiate visto i due precedenti capitoli, vi consiglio caldamente di andare a vederlo: difficilmente troverete in giro un film che vi faccia ridere, piangere, emozionare e riflettere come questo. A mio parere, è anche uno dei migliori film di questo 2010 cinematografico. La Pixar continua a non sbagliare un colpo, ma la attendo al varco l’anno prossimo con l’annunciato Cars 2 (ecco, magari quella sarà solo un’operazione commerciale). Toy Story 3 è un gran film, tanto sotto il profilo tecnico quanto sotto quello contenutistico. La sua unica pecca – ma in realtà non è neanche sua – è l’utilizzo del sempre meno convincente 3D. Che però un vantaggio lo porta: dietro a quei maledetti occhialetti, nessuno potrà vedervi piangere lacrime di commozione su uno dei finali più emozionanti che abbiate mai visto.

TOY STORY 3 - LA GRANDE FUGA
Diretto da Lee Unkrich
Voto: **** su ****

Luigi

lunedì 24 maggio 2010

Dialetti alle superiori: una scelta scellerata


immagine di Jacopo Prisco
Negli ultimi anni in Italia ha acquistato una certa importanza il dibattito intorno alla conoscenza dei dialetti. Questo tema va inserito nel contesto ben noto dell’importanza che le realtà locali vanno acquistando, grazie all’opera di sensibilizzazione di alcuni partiti politici ed al riconoscimento ormai diffuso sull’oggettivo fallimento dell’Unità, intesa come realizzazione di una koiné culturale e linguistica dell’Italia. Questi fattori, condivisibili o meno che siano, operano sicuramente con sempre più importanza. Abbiamo quindi la nascita di movimenti politici (fenomeno ormai vecchio) che puntano all’autonomia di realtà regionali o locali più o meno concepibili ed abbiamo una sorta di ansia spasmodica sulle possibili realizzazioni del federalismo a cui l’Italia pare in questi anni avviata. Ovviamente ognuno da la propria valutazione a questo insieme di fenomeni. Noi, qui, ci limitiamo a fare qualche osservazione sulla politica linguistica.
Ci riferiamo, precisamente, all’idea di introdurre nelle scuole la conoscenza del dialetto. Il tema (che si presta alle più disparate strumentalizzazioni), piuttosto dibattuto, pare abbia trovato una possibile soluzione. È una soluzione piuttosto smozzicata e francamente criticabile.
A quanto si dice, a partire dal prossimo anno sarà richiesta nelle scuole superiori (a partire dagli istituti tecnici) la padronanza dei dialetti da parte degli studenti. Non è detto (siamo italiani) che questo accadrà. Si pensa che potrebbe accadere. Ad occuparsene, sembrerà un paradosso, dovrebbero essere i professori di italiano (che a quel punto dovranno essere loro stessi in grado di padroneggiare il dialetto della zona in cui insegnano).
L’Italia, è noto ed intuitivo, ha un patrimonio linguistico pazzesco. La varietà delle lingue (o dialetti) che vi si parlano non ha paralleli in Europa (a meno che non si voglia prendere in considerazione la Russia). I dialetti (o lingue) parlati in Italia hanno spesso tradizioni prestigiose ed in alcuni casi hanno dato vita a letteratura autonome ed interessanti. Tutta questa galassia non può sicuramente essere trascurata in nome dell’uniformità linguistica. Certo, ma che soluzione è quella di verificare nel biennio delle scuole superiori la conoscenza pregressa del dialetto?
Chi non sa il dialetto della zona deve impararlo? E chi glielo insegna? Il professore di italiano (che a quel punto smette di insegnare l’italiano, non essendo verosimilmente dotato di due apparati fonatori indipendenti)? E che dialetto gli insegna (ricordiamoci dell’incredibile varietà di cui sopra)?
Ovviamente l’insegnamento del dialetto va razionalizzato, per essere reso minimamente utile. Una soluzione (già adombrata) potrebbe essere il ricorrere all’insegnamento di una koiné regionale (con opportuno restyling delle regioni). E dove la troviamo una koiné regionale?
Non nel Lazio. Parlo del Lazio perché è una regione che linguisticamente conosco bene e direttamente. Sicuramente i dialetti viterbesi, reatini, lepini e della zona settentrionale della provincia di Frosinone sono imparentati (in quanto dialetti centrali), ma si presentano completamente diversi gli uni dagli altri. Il fascio di isoglosse della cosiddetta linea Roma – Ancona fa sì che in queste zone ogni comune abbia un dialetto diversificato (talvolta nettamente) da quelli vicini. Una koinè tra questi dialetti (parenti, con una storia comune di almeno 1300 anni) è impossibile, date le varianti troppo differenti e la loro diffusione. Comunque questi dialetti non c’entrano niente con il romanesco (che sappiamo bene discendere in qualche modo dal fiorentino del Cinquecento). Il romanesco è ancora un dialetto centrale (anche se in qualche modo toscano o toscanide, quindi differente), figlio da un punto di vista storico dello Stato Pontificio. Purtroppo però nel Lazio abbiamo anche territori dominati nel passato dal Regno delle Due Sicilie e quindi abitati da parlanti di dialetti meridionali. Un’ulteriore diversificazione dialettale. Certo si potrebbe risolverla regalando quei territori alla Campania o all’Abruzzo. Ma come verrebbe risolta allora l’immigrazione nel Lazio un tempo pontificio di Campani ed altri meridionali?
In più nel Lazio (e qui si fa strada un po’ di sano autobiografismo) c’è anche una minoranza linguistica: i veneto-pontini (abbiamo anche la pagina su Wikipedia). Torneremo su questa intricata matassa. Continuiamo a cercare regioni italiane in cui realizzare la koiné regionale.
Non nelle regioni del Nord, tanto attente (per motivi sociali e politici) alle politiche linguistiche. Mezza Lombardia parla dialetti non lombardi; nel Piemonte abbiamo i franco-provenzali e varianti valligiane preziosissime; l’Emilia-Romagna si chiama così proprio perché formata da due entità linguistiche completamente differenti, ma talvolta di difficile determinazione (ad esempio: chi avrà il coraggio di imporre ai Bolognesi lo studio di una koiné romagnola?); il Friuli Venezia-Giulia ha la stessa doppia natura (scordandoci il ladino); il Trentino Alto-Adige è addirittura per metà popolato da Tedeschi che in più di mezzo secolo non hanno ancora imparato l’italiano!
Possiamo con occhio fiducioso rivolgerci al sud, che tanto quelli son tutti terroni e di sicuro parleranno allo stesso modo. Ed invece nel Sud Italia troviamo una differenziazione profonda quanto nel resto d’Italia (prova questa che persino loro sono italiani!). A parte l’evidente diversità tra dialetti meridionali e dialetti estremi meridionali (penso alla netta spaccatura della Puglia), vediamo isoglosse diffuse variamente, vediamo varianti prestigiose contrapposte a dialetti antichi e talvolta unici, vediamo delle isole linguistiche irrinunciabili (altri franco-provenzali in Calabria, insieme al grico e agli arbëreshë). Sconsolati potremmo lanciare uno sguardo alla Sardegna, dove tra l’altro una lingua sarda è già stata pronosticata. Niente, nemmeno lì c’è una koiné, né la possibilità di realizzarla (a meno che non si voglia cacciare i catalani da Alghero).
Si potrebbe pensare che insegnare i dialetti è importante al punto da trasformarlo, da mezzo per la difesa della parlata locale, a fine per l’imposizione della diversità (tornerò su questo punto). Quindi la koiné sarebbe facilmente creabile, dal momento che sarebbe una koiné non costruita, ma imposta.
A quel punto chiaramente in tutte le scuole superiori del Lazio si imporrebbe il romanesco che è sicuramente la variante più diffusa e prestigiosa (anche se purtroppo la meno “laziale”). A quel punto chiaramente i giovanotti imbevuti di romanesco si aggireranno baldanzosi per tutta la regione e di fronte agli ormai incomprensibili ragli delle loro madri sbotteranno orgogliosi nella loro nuova lingua: “Anvedi ‘sta burina! Aò, nun te capisco!”. A quel punto chiaramente la legge avrà fallito ed i dialetti ne usciranno impoveriti.
Perché è questo che noi intravediamo dietro la miopia di certi proclami e di certe scelte politiche (per ora abbozzate). Vediamo un tentativo incosciente di sferrare il colpo di grazia ai dialetti d’Italia. Vediamo il tentativo di imporre la diversità. Strana faccenda, quella della diversità: quando è presente naturalmente viene attaccata e criticata, si fa fronte comune contro di essa (penso a certe idiozie sull’Italia dalle improbabili “radici cristiane” contro la temuta avanzata islamica; penso all’invenzione delle razze figlie della terra, a partire dall’Ottocento e tragicamente nel Novecento; penso all’integralismo susseguente all’elezione di un nemico assoluto); però quando è ritenuta troppo poco efficace (specialmente se scattano vincoli percepiti come odiosi) viene inventata ed adoperata con gran zelo. Penso a quello che vedo tutti i giorni, in strada ed alla televisione. Penso al compiacimento della disgregazione. Penso alla dilagante imbecillità ed al rallegramento del proprio provincialismo.
Non credo che tutto questo si combatta schizzando leggi che intervengano sulle scuole superiori sottraendo. Credo che siano slogan, dalle conseguenze miopi se non pericolose. Come reagiranno certe persone sapendo che i loro figli apprendono la koiné piemontese (magari a Novara, dove si parla un dialetto lombardo) da un pugliese? Ristabilendo le frontiere del Congresso di Vienna?
E di fronte al mondo che cambia, saremo duttili nel cambiare (come dovremo essere duttili per parlare tutti il dialetto)? Quando nostro figlio capiterà in una classe con tre romani, quattro tunisini, sette egiziani e cinque campani (o anche con tre egiziani, quattro romani, sette campani e cinque tunisini) ci appelleremo alla statistica? Che koiné verrà insegnata in quella classe? Oppure faremo un censimento, mandando le persone ad abitare dove risedeva il loro bisavolo paterno? Quali slogan ci inventeremo a quel punto? E chi li capirà? Ci saranno ancora parlanti di italiano (la lingua impostasi perché lingua di poeti, non di conquistatori), oppure la distinzione dialettale che mira a ben altro avrà vinto?
Non inventiamo la diversità per imporla, per escludere. L’enorme patrimonio dialettale presente in Italia va certamente custodito. Meditiamo sul fatto che in nessuna regione italiana la maggior parte degli abitanti si esprimono in dialetto. Meditiamo sul fatto che di conseguenza i conoscitori dei dialetti diminuiscono di generazione in generazione. Vogliamo stabilire delle politiche linguistiche? Vogliamo tutelare questo caro patrimonio? Ritengo che ci vogliano scelte oculate. Non enormi manovre, superficiali e dannose.
Per quanto mi riguarda, io che scrivo, nato a Latina, ho preferito che mi sia andata come è andata: mi è piaciuto sentir parlare prima di tutto il veneto, poi il dialetto laziale di mio nonno che mi è ancora oggi oscuro, poi il latinense, quella graziosa forma attenuata di romanesco. Mi è piaciuto rendermi conto dopo aver buscato la pioggia a Terracina che ero moio, trecino e fracico. Una cosa mi è piaciuta di più: che quando sedevo a scuola mi abbiano insegnato l’italiano.
Quindi spero ed auspico che altri possano fare la mia stessa esperienza: vivere attivamente almeno una lingua nazionale ed un dialetto ed apprendere a scuola l’italiano e magari, invece di un dialetto imbastardito, il latino. Sono convinto che così la loro consapevolezza linguistica (e magari qualcos’altro) possa essere più elevata.

Matteo R.

Quello che potrebbe accadere tra una decina d'anni, qui.
Dimostrazione che esistiamo veramente, qui.
Per chi vuole documentarsi superficialmente, qui.
Una testimonianza sull'autodelimitazione tanto amata dagli uomini, qui.
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