lunedì 28 febbraio 2011

The king’s speech (with a little help from his friend)

Mai vittoria di Oscar fu più sicura – e, aggiungerei, meritata – di quella che è toccata a Colin Firth (Il diario di Bridget Jones, Love actually, Un matrimonio all’inglese, A Christmas carol) per la sua magistrale interpretazione del Duca di York nell’ultimo film di Tom Hooper (Red Dust, Il maledetto United), Il discorso del re. Segni particolari: evidente balbuzie.

La vicenda è ormai nota ai più: nell’Inghilterra degli anni ’30 del ventesimo secolo regna Giorgio V. Alla sua morte, nel 1936, il suo erede legittimo in linea di successione, il primogenito Edoardo, regna a malapena per un anno, rinunciando al trono pur di sposare la donna amata, Wallis Simpson, non solo borghese, ma addirittura pluridivorziata. Spetta dunque al fratello Alberto prendere il suo posto sul trono d’Inghilterra. Ma, pur essendo molto precisa e attendibile sotto il profilo storico, la trama del film è interamente concentrata su un’altra dinamica, sul rapporto che si instaura tra Alberto e il suo logoterapista, Lionel Logue (interpretato da Geoffrey Rush, già in Munich, Elisabeth: the golden age, Shakespeare in love, Pirati dei Carabi), un australiano attore mancato dai metodi troppo poco ortodossi per un erede al trono. L’incontro tra i due avviene grazie all’interessamento della moglie del principe, Elisabeth Bowes-Lyon (interpretata da Helena Bonham Carter, già in Camera con vista, Big fish, Fight club, Harry Potter e il principe mezzo sangue), decisa a voler tentare il tutto per tutto per cercare una soluzione alla balbuzie del marito. Nonostante le iniziali rimostranze da parte del principe Alberto, grazie a un costante impegno Lionel riesce non solo a risolvere il suo problema, ma anche ad indagare sulle cause che lo scaturivano, diventando confidente oltre che terapeuta. Tra i due si instaura un rapporto di amicizia tale che – come si legge alla fine del film – lo stesso Alberto, ormai diventato re Giorgio VI, conferisce al suo logoterapista l’onorificenza di cavaliere del re che spetta a tutti coloro che abbiano prestato servigi al sovrano.

Il film è ben costruito, si lascia seguire con una certa facilità, nonostante la storia di per sé non troppo avvincente e, quantomeno, dall’esito già noto. La macchina da presa è evidentemente statica, non solo perché, a mio avviso, i movimenti di macchina sarebbero stati fuori luogo per un film del genere, ma anche per conferire una certa solennità alle riprese: infatti, soprattutto nelle scene in cui si svolge la terapia, la macchina è ferma e sono solo gli attori a muoversi, con gesti assolutamente buffi, goffi, che si sposano perfettamente con le filastrocche o gli scioglilingua che il principe era costretto a ripetere. Il movimento nell’ambito delle sedute di logopedia sembra quasi diventare una sorta di liberazione da una vita “ingessata” come può essere quella di un principe. A ciò si aggiunge la contrapposizione degli ambienti sociali dei due protagonisti e delle rispettive famiglie: una spartana sala dove avevano luogo le terapie e le stanze lussuose dei palazzi reali.

Ancora una volta Hollywood trae spunto dalle vicende della corona inglese, che hanno da sempre grande presa sul pubblico, per cercare di sbancare i botteghini. Almeno stavolta, però, il film si allontana dai soliti, stereotipati intrighi di palazzo per restituirci il ritratto di un uomo normale, con le sue fragilità, come potrebbe essere ognuno di noi.


Valeria

Luigi

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