lunedì 24 maggio 2010

Dialetti alle superiori: una scelta scellerata


immagine di Jacopo Prisco
Negli ultimi anni in Italia ha acquistato una certa importanza il dibattito intorno alla conoscenza dei dialetti. Questo tema va inserito nel contesto ben noto dell’importanza che le realtà locali vanno acquistando, grazie all’opera di sensibilizzazione di alcuni partiti politici ed al riconoscimento ormai diffuso sull’oggettivo fallimento dell’Unità, intesa come realizzazione di una koiné culturale e linguistica dell’Italia. Questi fattori, condivisibili o meno che siano, operano sicuramente con sempre più importanza. Abbiamo quindi la nascita di movimenti politici (fenomeno ormai vecchio) che puntano all’autonomia di realtà regionali o locali più o meno concepibili ed abbiamo una sorta di ansia spasmodica sulle possibili realizzazioni del federalismo a cui l’Italia pare in questi anni avviata. Ovviamente ognuno da la propria valutazione a questo insieme di fenomeni. Noi, qui, ci limitiamo a fare qualche osservazione sulla politica linguistica.
Ci riferiamo, precisamente, all’idea di introdurre nelle scuole la conoscenza del dialetto. Il tema (che si presta alle più disparate strumentalizzazioni), piuttosto dibattuto, pare abbia trovato una possibile soluzione. È una soluzione piuttosto smozzicata e francamente criticabile.
A quanto si dice, a partire dal prossimo anno sarà richiesta nelle scuole superiori (a partire dagli istituti tecnici) la padronanza dei dialetti da parte degli studenti. Non è detto (siamo italiani) che questo accadrà. Si pensa che potrebbe accadere. Ad occuparsene, sembrerà un paradosso, dovrebbero essere i professori di italiano (che a quel punto dovranno essere loro stessi in grado di padroneggiare il dialetto della zona in cui insegnano).
L’Italia, è noto ed intuitivo, ha un patrimonio linguistico pazzesco. La varietà delle lingue (o dialetti) che vi si parlano non ha paralleli in Europa (a meno che non si voglia prendere in considerazione la Russia). I dialetti (o lingue) parlati in Italia hanno spesso tradizioni prestigiose ed in alcuni casi hanno dato vita a letteratura autonome ed interessanti. Tutta questa galassia non può sicuramente essere trascurata in nome dell’uniformità linguistica. Certo, ma che soluzione è quella di verificare nel biennio delle scuole superiori la conoscenza pregressa del dialetto?
Chi non sa il dialetto della zona deve impararlo? E chi glielo insegna? Il professore di italiano (che a quel punto smette di insegnare l’italiano, non essendo verosimilmente dotato di due apparati fonatori indipendenti)? E che dialetto gli insegna (ricordiamoci dell’incredibile varietà di cui sopra)?
Ovviamente l’insegnamento del dialetto va razionalizzato, per essere reso minimamente utile. Una soluzione (già adombrata) potrebbe essere il ricorrere all’insegnamento di una koiné regionale (con opportuno restyling delle regioni). E dove la troviamo una koiné regionale?
Non nel Lazio. Parlo del Lazio perché è una regione che linguisticamente conosco bene e direttamente. Sicuramente i dialetti viterbesi, reatini, lepini e della zona settentrionale della provincia di Frosinone sono imparentati (in quanto dialetti centrali), ma si presentano completamente diversi gli uni dagli altri. Il fascio di isoglosse della cosiddetta linea Roma – Ancona fa sì che in queste zone ogni comune abbia un dialetto diversificato (talvolta nettamente) da quelli vicini. Una koinè tra questi dialetti (parenti, con una storia comune di almeno 1300 anni) è impossibile, date le varianti troppo differenti e la loro diffusione. Comunque questi dialetti non c’entrano niente con il romanesco (che sappiamo bene discendere in qualche modo dal fiorentino del Cinquecento). Il romanesco è ancora un dialetto centrale (anche se in qualche modo toscano o toscanide, quindi differente), figlio da un punto di vista storico dello Stato Pontificio. Purtroppo però nel Lazio abbiamo anche territori dominati nel passato dal Regno delle Due Sicilie e quindi abitati da parlanti di dialetti meridionali. Un’ulteriore diversificazione dialettale. Certo si potrebbe risolverla regalando quei territori alla Campania o all’Abruzzo. Ma come verrebbe risolta allora l’immigrazione nel Lazio un tempo pontificio di Campani ed altri meridionali?
In più nel Lazio (e qui si fa strada un po’ di sano autobiografismo) c’è anche una minoranza linguistica: i veneto-pontini (abbiamo anche la pagina su Wikipedia). Torneremo su questa intricata matassa. Continuiamo a cercare regioni italiane in cui realizzare la koiné regionale.
Non nelle regioni del Nord, tanto attente (per motivi sociali e politici) alle politiche linguistiche. Mezza Lombardia parla dialetti non lombardi; nel Piemonte abbiamo i franco-provenzali e varianti valligiane preziosissime; l’Emilia-Romagna si chiama così proprio perché formata da due entità linguistiche completamente differenti, ma talvolta di difficile determinazione (ad esempio: chi avrà il coraggio di imporre ai Bolognesi lo studio di una koiné romagnola?); il Friuli Venezia-Giulia ha la stessa doppia natura (scordandoci il ladino); il Trentino Alto-Adige è addirittura per metà popolato da Tedeschi che in più di mezzo secolo non hanno ancora imparato l’italiano!
Possiamo con occhio fiducioso rivolgerci al sud, che tanto quelli son tutti terroni e di sicuro parleranno allo stesso modo. Ed invece nel Sud Italia troviamo una differenziazione profonda quanto nel resto d’Italia (prova questa che persino loro sono italiani!). A parte l’evidente diversità tra dialetti meridionali e dialetti estremi meridionali (penso alla netta spaccatura della Puglia), vediamo isoglosse diffuse variamente, vediamo varianti prestigiose contrapposte a dialetti antichi e talvolta unici, vediamo delle isole linguistiche irrinunciabili (altri franco-provenzali in Calabria, insieme al grico e agli arbëreshë). Sconsolati potremmo lanciare uno sguardo alla Sardegna, dove tra l’altro una lingua sarda è già stata pronosticata. Niente, nemmeno lì c’è una koiné, né la possibilità di realizzarla (a meno che non si voglia cacciare i catalani da Alghero).
Si potrebbe pensare che insegnare i dialetti è importante al punto da trasformarlo, da mezzo per la difesa della parlata locale, a fine per l’imposizione della diversità (tornerò su questo punto). Quindi la koiné sarebbe facilmente creabile, dal momento che sarebbe una koiné non costruita, ma imposta.
A quel punto chiaramente in tutte le scuole superiori del Lazio si imporrebbe il romanesco che è sicuramente la variante più diffusa e prestigiosa (anche se purtroppo la meno “laziale”). A quel punto chiaramente i giovanotti imbevuti di romanesco si aggireranno baldanzosi per tutta la regione e di fronte agli ormai incomprensibili ragli delle loro madri sbotteranno orgogliosi nella loro nuova lingua: “Anvedi ‘sta burina! Aò, nun te capisco!”. A quel punto chiaramente la legge avrà fallito ed i dialetti ne usciranno impoveriti.
Perché è questo che noi intravediamo dietro la miopia di certi proclami e di certe scelte politiche (per ora abbozzate). Vediamo un tentativo incosciente di sferrare il colpo di grazia ai dialetti d’Italia. Vediamo il tentativo di imporre la diversità. Strana faccenda, quella della diversità: quando è presente naturalmente viene attaccata e criticata, si fa fronte comune contro di essa (penso a certe idiozie sull’Italia dalle improbabili “radici cristiane” contro la temuta avanzata islamica; penso all’invenzione delle razze figlie della terra, a partire dall’Ottocento e tragicamente nel Novecento; penso all’integralismo susseguente all’elezione di un nemico assoluto); però quando è ritenuta troppo poco efficace (specialmente se scattano vincoli percepiti come odiosi) viene inventata ed adoperata con gran zelo. Penso a quello che vedo tutti i giorni, in strada ed alla televisione. Penso al compiacimento della disgregazione. Penso alla dilagante imbecillità ed al rallegramento del proprio provincialismo.
Non credo che tutto questo si combatta schizzando leggi che intervengano sulle scuole superiori sottraendo. Credo che siano slogan, dalle conseguenze miopi se non pericolose. Come reagiranno certe persone sapendo che i loro figli apprendono la koiné piemontese (magari a Novara, dove si parla un dialetto lombardo) da un pugliese? Ristabilendo le frontiere del Congresso di Vienna?
E di fronte al mondo che cambia, saremo duttili nel cambiare (come dovremo essere duttili per parlare tutti il dialetto)? Quando nostro figlio capiterà in una classe con tre romani, quattro tunisini, sette egiziani e cinque campani (o anche con tre egiziani, quattro romani, sette campani e cinque tunisini) ci appelleremo alla statistica? Che koiné verrà insegnata in quella classe? Oppure faremo un censimento, mandando le persone ad abitare dove risedeva il loro bisavolo paterno? Quali slogan ci inventeremo a quel punto? E chi li capirà? Ci saranno ancora parlanti di italiano (la lingua impostasi perché lingua di poeti, non di conquistatori), oppure la distinzione dialettale che mira a ben altro avrà vinto?
Non inventiamo la diversità per imporla, per escludere. L’enorme patrimonio dialettale presente in Italia va certamente custodito. Meditiamo sul fatto che in nessuna regione italiana la maggior parte degli abitanti si esprimono in dialetto. Meditiamo sul fatto che di conseguenza i conoscitori dei dialetti diminuiscono di generazione in generazione. Vogliamo stabilire delle politiche linguistiche? Vogliamo tutelare questo caro patrimonio? Ritengo che ci vogliano scelte oculate. Non enormi manovre, superficiali e dannose.
Per quanto mi riguarda, io che scrivo, nato a Latina, ho preferito che mi sia andata come è andata: mi è piaciuto sentir parlare prima di tutto il veneto, poi il dialetto laziale di mio nonno che mi è ancora oggi oscuro, poi il latinense, quella graziosa forma attenuata di romanesco. Mi è piaciuto rendermi conto dopo aver buscato la pioggia a Terracina che ero moio, trecino e fracico. Una cosa mi è piaciuta di più: che quando sedevo a scuola mi abbiano insegnato l’italiano.
Quindi spero ed auspico che altri possano fare la mia stessa esperienza: vivere attivamente almeno una lingua nazionale ed un dialetto ed apprendere a scuola l’italiano e magari, invece di un dialetto imbastardito, il latino. Sono convinto che così la loro consapevolezza linguistica (e magari qualcos’altro) possa essere più elevata.

Matteo R.

Quello che potrebbe accadere tra una decina d'anni, qui.
Dimostrazione che esistiamo veramente, qui.
Per chi vuole documentarsi superficialmente, qui.
Una testimonianza sull'autodelimitazione tanto amata dagli uomini, qui.

10 commenti:

  1. E' un post molto interessante.
    Effettivamente le riflessioni che fai, sull' impossibilità di scegliere quale dialetto insegnare per la frammentarietà stessa del panorama dialettale, sono giuste. Io non so dare una soluzione pratica a questo problema, che si pone come diretta conseguenza alla proposta avanzata in politica, ma posso comunque esprimere il mio rammarico di fronte all' evidente ed inesorabile perdita di vitalità dei dialetti, che sono destinati alla lunga a scomparire.
    Mi viene in mente la soluzione attuata dal governo indiano per fronteggiare la perdita identitaria dei giovani indiani della diaspora: hanno costituito, all' interno delle università, soprattutto in America, dove l' immigrazione indiana è massiccia, lo Hindu Youth Forum, con lo scopo di insegnare la cultura e la lingua indiana agli ABCD (American Born Culturally Deprived). Con questo, non si può certo proporre una soluzione identica. Magari però, idealmente, la formazione di centri di tutela del dialetto sparsi per tutta Italia, fruibili e capaci di coinvolgere i giovani, non sarebbe un' idea malvagia, se non fosse per il fatto che in Italia, dove le cose non si fanno o si fanno poco e male, verrebbero sicuramente strumentalizzati e trasformati in roccaforti del nazionalismo più gretto e sterile (del resto, anche in India i promotori del Forum sono gli esponenti del BJP, erede di tutti i partiti nazionalisti precedenti).
    Forse parlo con questo accoramento perchè in Toscana un vero e proprio dialetto non esiste, ma penso veramente che i dialetti siano un patrimonio fondante e fondamentale della cultura italiana.
    Aspetto prossimi post!

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  2. La scuola di cui tanto parlano questi politici esiste già: mio fratello ha imparato tutto quello che c'è da sapere sul terracinese durante i cinque anni delle sue elementari e ne va orgogliosamente fiero. Io invece non ho mai assimilato il dialetto della mia città, non ne ho mai sentito il bisogno. A casa nostra non si è mai parlato nessun tipo di dialetto per il semplice fatto che siamo un po' come una di quelle classi descritte da Matteo. Marchigiani, romagnoli, ciociari e latinensi hanno dovuto per forza di cose usare l'italiano per capirsi tra di loro. Così è nata la mia famiglia, dall'incrocio di queste quattro, diversissime razze, da matrimoni "misti", diremmo oggi.
    Ma, lasciando in pace i miei nonni, direi in generale che inserire l'insegnamento del dialetto a scuola potrebbe rivelarsi un'arma a doppio taglio: se da un lato, infatti, portebbe portare a una maggiore coesione tra i componenti del gruppo, dall'altro si rischierebbe di aumentare ancora di più la pericolosa divisione noi-loro. Io inorridisco al pensiero che nel nostro Paese si possa dire "napoletano" o "ciociaro" per offendere una persona. E ho paura che questa revanche del dialetto possa diventare uno strumento di discriminazione ancora più potente. Ovviamente questo non succederebbe se la nostra identità nazionale fosse più forte, più salda, se si smettesse di parlare di federalismo e di stati padani indipendenti.
    Mi sarebbe piaciuto imparare un po' di dialetto romagnolo o marchigiano dai miei nonni, se ce ne fosse stato il tempo. Per quanto riguarda la scuola, spero che possa volgere lo sguardo altrove, magari introducendo una seconda lingua straniera obbligatoria e continuando comunque a valorizzare il Latino e il Greco, in modo da mettere i propri giovani in condizione di poter scegliere al meglio per il proprio futuro, senza doversi sentire secondi a nessun francese, inglese o tedesco. Tutto questo, ovviamente, dopo avere insegnato l'Italiano a tutti gli italiani. Pure ai trentini.

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  3. Brava valeria!

    (il problema non sono i trentini, ma gli altoaltesini)

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  4. Quello che dici sull'impossibilità di individuare una koiné unitaria (a livello regionale) mi sembra molto condivisibile. Io non sono un linguista né un glottologo - quindi il mio parere vale meno di niente in questo caso - però voglio dire lo stesso la mia.
    Io ritengo che insegnare i dialetti a scuola sia sicuramente sbagliato. La scuola italiana ha già tanti problemi così com'è, figuriamoci se dobbiamo cominciare a fare i conti anche con i dialetti! Oltre alle difficoltà che hai evidenziato tu nel post, mi viene in mente anche che il più delle volte i professori insegnano in luoghi diversi da quelli in cui sono cresciuti, e continuano a muoversi per buona parte della carriera: il che li dovrebbe obbligare a un continuo processo di apprendimento linguistico, ovviamente inattuabile oltreché inutile. Meglio se la scuola si concentra sull'italiano, prima di tutto, e poi sulle lingue straniere (per non perdere terreno nei confronti dei nostri vicini) e sul latino e magari sul greco (per aprire la mente)

    Vi confesso che io non credo che i dialetti scompariranno. Secondo me continueranno a esistere, solo che lo faranno male. A mio parere di generazione in generazione i dialetti si imbastardiscono, si mischiano gli uni con gli altri, vengono assimilati dai giovani in modo diverso da come lo hanno fatto i loro genitori. Insomma, i dialetti si continueranno a parlare. Il problema è vedere come.

    La soluzione? Non credo passi per le scuole. E' più competenza delle comunità, delle famiglie e - perché no? - delle istituzioni culturali locali

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  5. Mi sono trovato interamente d'accordo. Il discorso è sicuramente interessante e suscettibile di sviluppi ulteriori in senso costruttivo. Io penso che il recupero delle tradizioni dialettali possa avvenire - come si legge anche sopra di me - prevalentemente attraverso l'attività di istituzioni culturali locali, senza troppe pretese nei riguardi di un'eventuale "rinascita" dei dialetti come lingue d'uso. La pressione di modelli sociolinguistici "esotici" è troppo forte perché si possa realmente credere ad un'ipotesi simile. Tuttavia, ciò non toglie che questa nostra importante tradizione linguistica possa essere (e vada) valorizzata, magari stimolando produzioni letterarie d'intrattenimento in dialetto e/o l'organizzazione di eventi e spettacoli con fine analogo. Il tutto sempre e comunque a livello locale, ché localmente e basta un dialetto può essere ancora in certa misura - almeno per ora - sentito come "vivo". Da non dimenticare l'importanza che potrebbero assumere - per una guida scientifica o semplicemente per lavori di divulgazione - gli ambienti accademici in cui ci si occupa di Dialettologia.
    Il discorso sui dialetti non va banalizzato come mera questione linguistica, se è vero, come è vero, che dietro una lingua ci sono un modo di vedere la realtà, una cultura, magari anche una letteratura, che rendono ragione di ciò che siamo più di quanto si tenda a credere fuori dalle aule delle Facoltà umanistiche. Per quanto concerne la letteratura, voglio citare il poeta dialettale palermitano Giovanni Meli, definito da Goethe "il più grande poeta d'Europa". Pare fosse italiano anche lui!

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  6. Giovanni Meli è una delle 4 coroncine (come le Tre Corone) insieme a Belli, Goldoni, Porta che scrivevano tutti in dialetto ma fanno parte della letteratura italiana. Viva i dialetti.

    Sai Luigi, dovresti fare un esame di dialettologia per scoprire di essere portato per quella materia. La tua intuizione è una verità linguistica: i dialetti si chiamano dialetti e non lingue ma sono lingue a sé stanti. Li chiamiamo dialetti perché nella vita di tutti i giorni sono in una posizione subordinata rispetto alla lingua nazionale. Ovviamente le lingue (come ogni dato culturale) sono fluide e si influenzano a vicenda. Ti dico una cazzata: metti caso che l'inglese continua a diffondersi e tutto l'Occidente inizia a parlare inglese. Ovviamente essendo così diffuso si frantumerà. Le lingue neoinglesi avranno caratteristiche che discendono direttamente dalle lingue parlate prima dell'inglese. Quindi in neo-inglese italiano ci saranno sicuramente delle caratteristiche dell'italiano. Ma ti dirò di più: il neoinglese italiano di Roma sarà diverso dal neoinglese italiano di Napoli. Così avremo due nuvoi dialetti in una lingua completamente diversa.

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  7. Sono onorato di tutta questa attenzione, davvero.

    Roberto ha colto nel segno quando specifica meglio le istituzioni culturali locali da me citate. Io avevo in mente proprio il teatro: da un lato pensavo alla sconfinata produzione teatrale napoletana (che conosco molto bene grazie alla mia famiglia, e che continua a vivere anche ben oltre i confini dell'Italia), dall'altro mi venivano in mente iniziative come quella del piccolo paese di Riofreddo, in provincia di Roma, dove hanno riadattato degli spettacoli teatrali (mi sembra proprio di De Filippo) recitandoli nel dialetto locale.
    Altre iniziative cui ho assistito sono invece di tipo letterario: raccolte di poesie e racconti, per esempio, rigorosamente in dialetto. Ma so che in molti posti sta prendendo piede l'usanza di redigere dei vocabolari e persino delle grammatiche dialettali. Sono cose simpatiche, se vogliamo, che possono tenere vivi i dialetti quasi "per gioco"; però possono essere veramente utili

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  8. Mi trovo d'accordo con te oh Matteo.
    Soprattutto sulla varietà di dialetti relativi ad una stessa area. Imporre un dialetto x, per alcuni, sarebbe come imporre una nuova lingua e cancellare il dialetto dell'area in questione.
    Basta pensare al nostro bell'agro pontino
    (elencherò i dialetti seguendo un ordine di distanza tra le aree geografiche, come se stessi percorrendo questa nostra terra sulla pontina, la cistercense o la mediana...)
    aprilia ---> romanesco appena accentuato
    cisterna ---> cisternese
    [cori ---> corese]
    [bassiano ---> bassianese]
    [sermoneta ---> sermonetano]
    [sermoneta scalo ---> ????]
    latina ---> ??????
    pontinia ---> ??????
    [priverno ---> provernese]
    [sezze ---> sezzese]
    sabaudia/san felice ---> dialetto marittimo
    terracina ---> terracinese


    Cito tale roberto qui sopra "dietro una lingua ci sono un modo di vedere la realtà"
    Mattè ma ci pensi a un corese, bonario e civile, che parla con l'arroganza spavalda del romanesco?
    Io penso che una persona di cisterna possa parlare solo cisternese, chè non v'è lingua piu adatta.
    Stessa cosa vale per tutti gli altri popoli.

    Insegnare un dialetto nelle scuole distrugge la natura stessa del dialetto.
    Insegnare la lingua nazionale invece, mi pare il minimo, in un paese europeo post ottocentesco.

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  9. Veramente un articolo interessante, che mi trova in gran parte d'accordo. Credo che in questa scelta scellerata ci sia in realtà più una scelta politica che linguistica. Mascherano le loro porcherie parlando di questo. Spero davvero che non si continui con questa storia di dare più risalto ai dialetti, ci renderebbe solo più provinciali di quello che siamo già considerati in Europa (e a ragione...)

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  10. Valeria non denigrare la soluzione federalista!Se plasmata con le giuste caratteristiche potrebbe salvare questo schifo di stato.

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